A.S. 2018/19

Rieccoci. Letture libere o suggerite, attese o scoperte per caso...

La storia di un uomo che non si accontenta di vivacchiare, ma vive con la consapevolezza che se non si cerca di realizzare lo spirito, il Geist, il soffio vitale che è in noi, l'esistenza è solo un monotono e inanimato ripetersi di procedure.

Ovviamente per prendere la strada opposta bisogna avere avere coraggio ed energia, due componenti che Andrea Franzoso ha vendere senza il pericolo di rimanere senza. 

Ha ragione Milena Gabanelli quando afferma, in copertina, che questa è la storia di un uomo libero.

Tutte le scelte di Franzoso, in effetti, sono mosse da un vento profumato di libertà; anche quella che lo pone, inevitabilmente, di fronte alla scelta tra la rassegnazione e la rinuncia al "fatti i fatti tuoi". 

Cercare la giustizia è impresa onerosa, ma, come si legge nel libro di Daniele 12, 3, non basta essere giusti: coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre. E Franzoso dimostra che le luci della dignità, del dovere, della scelta dolorosa ma giusta, sono le più luminose in assoluto. 

Quest'anno non ho potuto leggere come avrei desiderato: ho fatto i conti con molti impegni inaspettati e soprattutto uno sciaguratissimo esame da affrontare a fine maggio.

Ma il libro, prestatomi dal sempre sorprendente collega Luca, mi ha accompagnato in un viaggio breve (sono 120 pagine, e scritte con uno stile lineare e scorrevole) ma intenso. Non so se posso affermare di condividere tutto ciò che l'autore ha scritto, perché ciò che ho letto ha spiazzato decenni di pensiero unico sulla visione medievale; una visione che, grazie al Cielo, proprio da quando insegno sto cercando di scardinare anche a favore dei giovani virgulti che mi vengono affidati.

E tanto più leggevo, tanto meglio capivo: se vogliamo fare dell'immagine di Dio un apparato monolitico, ci illudiamo che la Storia e l'uomo avanzino come marchingegni sincronizzati e ben oliati, quando invece si tuffano nella varietà degli eventi e delle idee. Quindi la reductio ad unum che ci è stata propinata fin dai banchi liceali risulta ben poca cosa mentre ci accorgiamo, insieme all'autore, che la soluzione stava là, sotto i nostri occhi, rivestita dal manto ricco e generoso di un'epoca che non ha nulla di oscuro ma molto di affascinante.

Chiudo rubando le parole al priore di Bose Enzo Bianchi: ci sono studiosi dotati di una tale capacità di sintesi e una tale chiarezza di divulgazione da riuscire a tratteggiare con serietà ed esaurientemente quale fosse il volto di Dio nei paesi del Sacro Romano Impero su un arco di tempo di quasi mille anni. Uno di questi rari personaggi è Jacques Le Goff.

Scritta nel 1995 per una platea di studenti americani, questa conferenza ha il pregio di essere una lucida e profetica analisi di quel "fascismo eterno" che oggi si sta incarnando in uomini e donne della nostra società, a tutti i livelli. Impossibile non capire quanto Eco scrive: magari non conoscerete tutte le citazioni, di certo riconoscerete le dinamiche di una sottile via alla violenza e al disprezzo della verità che tanto più è pericolosa quanto più appare in giacca e cravatta o in felpa. L'affermazione autoritaria di un elitismo che si basa su di un "populismo quantitativo" (=il popolo è concepito come un'entità monolitica, gli individui non contano più, tantomeno i loro diritti) è già qui, è foderato di like superficiali e di provvedimenti che vedono complotti dappertutto. Ma è soprattutto nel sospetto per la cultura, nell'impossibilità di tollerare atteggiamenti critici e contrari al monolite del leader. 

Il testo è breve (poco più di una ventina di paginette), e assolutamente perspicuo: merita una lettura da parte di ogni ragazzo che voglia affrontare l'Esame di Stato senza dover buttare via cinque anni di storia. 

Non potevo non leggere un libro che si preannuncia già precario fin dalle prime pagine: un libro che doveva essere scritto a quattro mani e che invece va sotto il nome della sola Tamaro, nel ricordo dell'amico poeta. L'autrice utilizza il tono sapienziale e didattico dei suoi testi, riempiendo la scrittura di sguardi sulla piccola natura bucolica e sulla fragilità di essere diversi. Motivi nobilissimi di per sé, come quello della vita pervasa dal Male che si può affrontare a testa alta, o dell'ottusa modernità che fa sfavillare come progresso la regressione dei sentimenti; ma ciò che sotto sotto mi infastidisce è ci vengono propinati con uno stile piuttosto stucchevole. Eppure non potevo non leggerlo, perché se quelli che ho enunciato sono i motivi della debolezza di questo diario, sono anche gli elementi fondanti di una testimonianza. E come ogni testimonianza il libro va preso sul serio, e se fosse anche l'ultima opera della Tamaro va letto nella sua trasparente verità. Una cecità che ha sempre afflitto i detrattori, anche insigni, della Tamaro, è il non riconoscerle la sua autenticità. Della Tamaro ho apprezzato Per voce sola; ho letto anche il resto, non mi ha convinto per il tono sapienzale perennemente in sottofondo. Tuttavia non mi è piaciuta neppure la furoreggiante battaglia dei recensori schifati dalla sua narrativa che rappresentò, anche se per poco tempo, un canone. Le pagine della Tamaro sono autentiche, questo può dire l'istinto di lettore; certo non basta l'autenticità per scrivere un buon libro, occorre anche veicolare contenuti ed idee che ci trasportino al di là della quotidiana verità, perché allora tra Madame Bovary e la casalinga di Voghera non ci sarebbe nessuna differenza. 

Letto, riletto, letto di nuovo. Il primo gennaio 2019  sono cento anni dalla nascita di J.D. Salinger. Nessuna volontà celebrativa, solo un'occasione in più per riprendere tra le mani questo romanzo e rimanere ancora una volta stupiti dall'onestà e intelligenza narrativa del suo autore. Holden è giovane ma non ingenuo, adolescente ma non superficiale, entusiasta ma non immaturo, divertente ma non idiota. Se molti critici pongono in quest'opera una voce profetica del Sessantotto (e per questo rimando all'articolo di Francesco Pacifico), noi che leggiamo oggi vi troviamo uno sguardo autentico sulla vita e le sue increspature, raccontate da un sedicenne poco ligio ai compromessi e con molto più sale in zucca del palloni gonfiati di ogni età che lo/ci circondano. Holden non è giovane a tutti i costi: la sua sfrontatezza va di pari passo con l'amara ma necessaria consapevolezza che sfuggire alla morte è impossibile, e che vendere l'anima (a Hollywood, ai soldi, alla rispettabilità formale, alle ipocrisie sociali) può essere senz'altro comodo ma non è né risolutivo né divertente. E con Il giovane Holden il divertimento va di pari passo con la certezza che ogni minuto speso sulle sue pagine è un minuto speso bene. 

Santo Cielo, sono settimane che non aggiorno la pagina e soprattutto non pesco di nuovo in libreria. La verità è che impegni e salute mi sono stati contrari. Ma il libro della Mastrocola mi ha tenuto compagnia durante un paio di giorni in cui ho dovuto obbedire al medico, trangugiare medicine e usare la posta e il telefono come unico mezzo per uscire di casa.

E proprio su questa piacevole compagnia mi trovo a riflettere, visto che chi mi conosce sa come non apprezzi molto il personaggio-autore, mentre mi ritrovo implacabilmente ad apprezzare i suoi libri. Forse davvero ha ragione mio marito Marco, quando mi esorta a distinguere tra la persona che scrive e ciò che viene scritto. O forse basta dire che questo romanzo è leggero e piacevole quanto basta, in dosi regolate dalla consapevolezza che ciò che le vicende di Torrente, screziate da una vena di surrealismo, sono una descrizione cesellata di piccoli quadri della nostra giovinezza e della nostra vita, ma soprattutto della vita degli adolescenti. La seconda parte accentua il dato surreale, ed è più amara e meno riuscita, a mio parere: risente forse, in alcune note per nulla implicite, di quanto capitò alla stessa Mastrocola, che auspicava di vincere il concorso da ricercatrice e si ritrovò invece ancora seduta alla cattedra del biennio del liceo.

Un libro che farò leggere ai miei alunni perché un po' di leggerezza non guasta, e perché l'amarezza e la nostalgia sono dipinte con una mano attenta e rispettosa, per nulla invasiva; un'ottima descrizione delle emozioni per i (giovani) lettori di oggi, che prima di affrontare Anna Karenina hanno bisogno di essere svezzati alla scuola dei sentimenti. 

Non so se sono afflitta dalla consueta sindrome del volume-vincitore-e-quindi-da-apprezzare-a-tutti-i-costi, ma mentre leggevo questo romanzo avevo nostalgia di Suite Francese della Némirovsky. Certo, il contesto narrativo è diverso, diversi sono pure i tempi della composizione e della pubblicazione; ma il paragone per me è stato inevitabile, nonostante cercassi in ogni momento di scacciarne il pensiero. E dire che la Postorino, in un'intervista alla rivista Il Librario, afferma: "i temi da sempre centrali nella mia scrittura [sono]: l'ambiguità delle pulsioni umane, il confine sottile tra vittima e colpevole, la coercizione, gli effetti delle organizzazioni totalitarie (dalla la mafia al carcere al nazismo) sulla vita (privata) delle persone". Ovvero tutto ciò che si ritrova, in una dimensione di più ampio respiro, proprio in Suite Francese. 

Dopo venti pagine avevo voglia di mollare, ed è stata la mia alunna Beatrice, che quest'estate si è dedicata a leggere i testi della Rassegna Letteraria di Vigevano, a consigliarmi di continuare. La ringrazio perché in effetti il romanzo dopo le prime pagine ha preso quota; da qui però a dire che merita la fascetta di vincitore, almeno a mio parere ce ne corre.  

Il caso Mattei è tale perché bastava un poco di onestà intellettuale per capire chi sono fossero mandanti; purtroppo a tutt'oggi mancano le prove, nonostante il lavoro di indagine svolto dal giudice Calìa che ha restituito alla verità dei fatti almeno la certezza che non si trattò di incidente. Il libro si compone di due parti: la prima scritta da Vincenzo Calìa, dedicata a illustrare le indagini della Procura di Pavia; la seconda scritta da Sabrina Pisu, che ricostruisce il processo di insabbiamento e depistaggi delle ricerche compiuto subito dopo l'abbattimento dell'areo dove viaggiava il presidente dell'Eni.  Nella parte della Pisu la stampa italiana esce con le ossa rotte. In particolar modo alcune penne eccellenti, Montanelli e Cervi, ad una lettura filologica dei loro articoli si dimostrano distanti da quello spirito libero e critico che dovrebbe caratterizzare la professione del giornalista. 

L'intimidazione, la negazione dell'evidenza, le manipolazioni grossolane o raffinate, il rovesciamento dei fatti, il disprezzo per l'intelligenza investigativa: tutto ciò viene raccontato in questo volume, che lascia indignati e tristi. Indignati, per il disprezzo impunito e omertoso della verità da parte di coloro che della verità dovrebbero farsi paladini. Tristi, perché il nostro Paese non capì, accettò, si rassegnò, lasciò correre: così come è successo più tardi, così come succede oggi, si preferì vivere in un'italietta piccola e bugiarda piuttosto che in un Paese capace di fare scelte coraggiose, come quelle di Mattei. Per quelle scelte coraggiose Mattei cadde, e l'Italia non è diventata una grande nazione. 

Un breve saggio, focalizzato sulla salita di Ambrogio dagli scranni di funzionario della Milano tardoimperiale a vescovo della capitale dell'Impero Romano d'Occidente. Un testo dedicato al percorso dell'uomo da cristiano non battezzato a pastore di una diocesi turbolenta (per via della questione ariana), determinato a non perdere la primazia sul potere laico qualora l'indirizzo morale voglia e debba prevalere sulla ragion di Stato. Un uomo che, ben conoscendo gli ingranaggi dello Stato, affrontò, pur con prudenziale timore, quelli di Santa Romana Chiesa. E che insieme al fratello costituisce una figura pregnante di quel periodo, così poco amato forse dai nostri studenti  eppure così affascinante, così ricco di suggestioni: per la forza della classicità ancora imperante, a braccetto con l'eversione delle nuove idee, nel profumo della decadenza che impregnava la città-capitale e che gettava gli ultimi, meravigliosi virgulti culturali, artistici, letterari. 

Dopo Affinati e la sua lettura non convincente della figura di don Milani (vedi estate 2018), volevo recuperare la dimensione completa di quest'ultimo, innanzi tutto quella del sacerdote. Il volumetto è privo di ogni baldanza biografica, e si attesta piuttosto sul ricordo personale, sulle emozioni provate e sul significato profondo dei piccoli accadimenti raccontati. 

Andrebbe letto da chiunque liquida il Priore di Barbiana come cattocomunista o come la causa della decadenza sessantottina della scuola. 

Ne emerge la figura, prima di ogni cosa, di un sacerdote teso a vedere e servire Dio: quel Dio che, negli ultimi, trova la sua incarnazione più autentica.  Un uomo che non si dipingeva perfetto, ma pensava di essere il migliore maestro possibile per i suoi ragazzi. L'autrice non nasconde le spigolosità di un carattere singolare, tuttavia mai privo di umanità e di una intelligenza acuta e appassionata. 

©Paola Comelli, 2025. Tutti i diritti riservati. Le immagini sono state scattate dall'autrice.
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