Estate 2022
Eccomi di nuovo, pronta a proporvi le letture che mi accompagnano in questa estate difficile, torrida, avara di acqua e della spensieratezza estiva, che sembra essere stata per sempre sostituita dai colori dell'Apocalisse... Ma un libro è sempre vicino a dare conforto: di nulla ha bisogno se non di rivivere insieme a voi, mentre lo leggete...

Una bella favola, sostenuta da una appassionata ricerca di archivio. Dunque una vicenda vera con le pennellate del romanzo, perché i lettori conoscano una storia poco nota ma eroica e degna di essere ricordata, anzi, celebrata. Questo nelle intenzioni dell'autore.
Un bel libro? Beh, le favole piacciono sempre.
E allora?
In molte pagine si avverte l'agiografia, e non la verità. Gressoney viene descritta come un borgo di gente laboriosa, geniale e piena di risorse: peccato che si trascuri tutto il resto, ovvero la povertà, lo stato di prostrazione fisica e morale di molti residenti, soprattutto donne, la nostalgia non per una terra lasciata sull'onda del bisogno e della fame, ma per cercare di scampare e di vivere senza il fiato mortale della fame e del bisogno, spesso senza successo..
Gli unici giganti sono le montagne, indifferenti statue alle piccole e insignificanti vicende umane. Perché uomini ricchi morissero a meno di quarant'anni con la tisi o altri mali inarrestabili, o le donne venissero lasciate nella subalternità ad ogni livello sociale, tutto questo viene appena accennato, o addirittura ipocritamente levigato con qualche immagine o riferimento dal sapore inverosimile. Gli accenni alle dure condizioni di lavoro, all'insalubrità dell'aria negli stabilimenti, allo sfruttamento degli operai (donne, uomini, minori) si suggerisce pudicamente ma molto velocemente in qualche immagine narrativa che peraltro vorrebbe solo tinteggiare la nobiltà degli animi rappresentati.
Ho letto il romanzo. mi sono divertita, il tempo è passato veloce: il suo lavoro questo libro l'ha fatto. Quindi se volete svagarvi e ritornare a vivere negli ultimi vent'anni dell'800 lasciando fuori dalla porta tutta la dura la realtà che ciò comportava, fate pure, come ho fatto io.
Ma se volete svagarvi senza staccare il cervello, ebbene, sarà inevitabile accorgersi di tutte queste stonature, e chiedervi come sia possibile accettare, senza mettere da parte l'onestà intellettuale, che tali distonie farciscano le pagine del romanzo.

Un bella scoperta. Nemmeno all'Università avevo letto qualche pagine di questo autore, e caso vuole invece che l'edizione che vedete nell'immagine abbia una corposa introduzione di Renzo Cremante, che consultando proprio il Fondo de Marchi dell'Università di Pavia si è cimentato anche nella filologia d'autore (ma con molta più discrezione di certi invasati che ora, come già preconizzava Claudio Giunta, si trovano con le ruote sgonfie). Ha assolutamente ragione Raboni quando dichiara che "è un noir alla Simenon scritto sei anni prima che Simenon nascesse": una trama che avvinghia il lettore e non lo lascia più, un intreccio intelligente, calibrato, senza alcun esibizionismo di genere e con una prosa curata. Davvero sottovalutato: un'opera che farò leggere ai miei studenti.

Come qualcuno che mi segue già sa, ho cominciato a leggere i grandi romanzi russi passati i quarant'anni, perché fino ad allora avevo apprezzato maggiormente le trame complesse della scuola inglese o l'attenzione realistica di quella francese. Per questo di quando in quando cerco di riempire i buchi lasciati in passato, e questa volta ho scelto il grande feuilleton di Dostoevskij, così definito da alcuni critici letterari perché risente di alcune ingenuità proprie del romanzo di appendice, costruite per spingere i lettori a non perdere un numero della rivista sulla quale veniva pubblicato. A mio parere invece queste tecniche, fatte di analessi e prolessi sapientemente dosate e di colpi di scena tutto sommato neanche troppo spettacolari, sono il punto di forza del romanzo, che nel titolo dispiega già la sua tesi: coloro che vengono calpestati dalla cattiveria degli uomini e dal destino (peraltro sempre guidato dagli uomini, in un interessante rovesciamento di prospettiva) sono coloro che stanno nel giusto, e che meritano di stare tra coloro che guadagneranno la felicità eterna. Qui in terra no, resteranno umiliati ed offesi senza possibili di riscatto e neanche di happy end, come invece per il romanzo di don Lisander. L'affresco rimane comunque imponente, gli spunti non banali, l'energia della prosa trascinante.

Questo dovrebbe essere il libro che tutti i terapeuti e gli psicologi dovrebbero leggere: una smentita coraggiosa (e sulla propria pelle) dei luoghi comuni che ormai si tramandano da una scuola all'altra, da un terapista all'altro, financo da un paziente all'altro (si sa che i deboli sono sempre soccombenti di fronte ai luoghi comuni). E invece, come recita la stessa introduzione al volume, il contributo di Ghezzani racconta una nuova visione della psicologia e restituisce ascolto e dignità a quel mondo sommerso delle anime sensibili e delle persone creative. Perché non sono queste ultime a doversi adattare a un mondo arido e incapace di valorizzare i sentimenti e la creatività, compito che gli psicologi chiamano stolidamente "resilienza": è come chiedere a un'orchidea di comportarsi da tarassaco, come mette in evidenza l'autore. E voi, quando desiderate fare un regalo floreale, raccogliete un bel mazzo di tarassachi o scegliete un'orchidea? Ghezzani mette in guardia contro il tradimento della psicoterapia che ha smarrito l'autentica capacità di ascolto e di empatia e la valorizzazione delle componenti individuali di ciascuna persona: il disagio espresso da quest'ultima non va inteso come una disfunzione e appiattito su di un generico adattamento al contesto, bensì interpretato come una iperfunzionalità, che occorre accudire e trattare come tale, perché posseduta da chi detiene qualità particolari e quindi ha bisogno di un’attenzione particolare, dato che il terreno comune non le si addice. Come già scrivevano Hillman e Ventura nel loro saggio del 1992 "Cent'anni di psicanalisi. E il mondo va sempre peggio", se la terapia ha lo scopo di adattare l'individuo a una società malata, il risultato sarà una moltiplicazione del malessere, nell'individuo e nella società. Ciò che serve, allora, è un radicale, coraggioso cambiamento di paradigma. E Ghezzani lo fa.

Sì, sono già cosa pensate: ma che cosa è andata a scovare, questa volta? Diciamo che sono stata aiutata dal caso, perché la mia casa non riesce più a trattenere (è il caso di dirlo) i libri, e allora in vacanza mi tocca andarli a prendere in libreria. Così ho visto una copia di questo romanzo, e ho deciso di dargli un'occasione, scoprendo felicemente di aver fatto bene!
Certo, siamo nel recinto delle avventure avventuresche (passatemi la locuzione) di Salgari; in questo caso nientemeno che a Cipro e al 1571, anno dell'assedio di Famagosta (che ricorda molto bene l'assedio attuale del capolinea della MM2 nei giorni lavorativi). La fabula è fin troppo semplificata per i nostri gusti di lettori sofisticati, i colpi di scena preannunciati, la vicenda a tratti annegata negli stereotipi dell'infedele malvagio (stereotipi? andatevi a vedere la storia dell'assedio di Otranto del 1480).
Ma è la sintassi che vince su tutto: chiara, piana, conformata ormai ad un italiano che è divenuto nazionale e che ha surclassato, nella modestia di uno scrittore che le antologie spesso non ricordano, la soluzione manzoniana.
Salgari si suicidò in un modo crudele, seppellito dalla fatica, dai debiti per mantenere la famiglia e la moglie malata e dall'amarezza per la mancanza di un giusto riconoscimento alla sua opera, che gli accademici disprezzavano ma in segreto leggevano. E' giusto non solo ricordarlo ma anche leggerlo, perché quella prosa fa parte dell'architrave della prosa italiana del XX secolo.